RASSEGNA STAMPA

CORRIERE SERA - Il verdetto delle sorprese

Genova, 15 luglio 2008

Le violenze e i nomi che mancavano
Il verdetto delle sorprese
di MARCO IMARISIO

I l verdetto arriva a sera tarda, quando fuori è buio e i custodi del palazzo di giustizia sbuffano perché hanno fretta di chiudere. E farà molto discutere, come minimo, perché la gravità di certi comportamenti avvenuti nella caserma di Bolzaneto durante il G8 non viene rappresentata nella sentenza.
Dopo dodici ore passate in camera di consiglio, il giudice Renato Delucchi ha appena finito di leggere un elenco fittissimo di numeri, rimandi, codicilli, che in molti non riescono a capire. Quelli che a Bolzaneto c'erano, le vittime dei soprusi, sono i primi a farlo. Misurano il numero delle persone colpevoli con quello degli imputati, appena 15 su 44, fanno il conto degli anni di pena comminati rispetto a quelli richiesti dall'accusa, appena 24 su 76, guardano ai risarcimenti accordati alle 209 parti lese, solo due milioni di euro sui 7 richiesti in totale. E se ne vanno, in silenzio e a capo chino, qualcuno con gli occhi lucidi.
I pubblici ministeri Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello rimangono, ma anche loro hanno la voce che trema e lo sguardo appannato. 
Nella caserma di Bolzaneto non c'è stata alcuna tortura, è questo il boccone più amaro che devono mandare giù. La sentenza del tribunale di Genova dice soprattutto questo. «L'umiliazione, l'annientamento delle persone recluse» sono le parole usate da Ranieri Miniati durante la sua accorata requisitoria. «Un luogo dove per tre interminabili giorni sono stati sospesi i diritti umani». Poi il magistrato lasciò parlare i fatti, diede voce ai racconti dei testimoni, mai messi in discussione dai difensori degli imputati durante le 157 udienze di un processo durato due anni, durante il quale sono state ascoltate quasi quattrocento persone. Fu un racconto per stomaci forti. Il taglio di capelli di Taline Ender e Saida Teresa Magana, il capo spinto verso la tazza del water a Ester Percivati, lo strappo della mano di Giuseppe Azzolina, al quale sono stati divaricati anulare e medio fino a lacerare la carne; le ustioni con sigaretta sul dorso del piede a Carlos Manuel Otero Balado. E poi la marchiatura delle guance dei ragazzi giunti dalla scuola Diaz, la particolare foggia del copricapo imposto a Thorsten Meyer Hinrric, costretto a girare nel piazzale senza poterlo togliere, un cappellino rosso con la falce ed un pene al posto del martello. Tutto questo non è tortura, secondo la sentenza di ieri. Il reato non è previsto dal nostro ordinamento, lacuna alla quale proprio lo sdegno per quanto avvenuto a Bolzaneto fece per qualche tempo da propellente per un eventuale rimedio. 
Non esistendo una norma penale, l'accusa fu costretta a contestare agli imputati l'abuso d'ufficio, che sarà comunque prescritto nel 2009. Ieri, nel fitto sbarramento di numeri fatto dai giudici si è capito che l'articolo 323 del codice penale, quello che sancisce questo reato, non c'era. È stato riconosciuto l'abuso di autorità nei confronti dei detenuti, versione molto più attenuata del reato scelto per fare da succedaneo alla tortura. Ma gli imputati sono tutti assolti dalle aggravanti per i futili motivi e la crudeltà che avrebbero dovuto fare da corollario a questa accusa, e anche questo è difficile da mandare giù per chi è stato vittima di certi soprusi, come le ragazze minacciate di stupro «come in Kosovo», così urlavano gli agenti. Ecco, ai magistrati mancavano i nomi e i cognomi da abbinare ad ogni singolo comportamento, il punto debole di tutta la loro ricostruzione è sempre stato quello, e ne erano consapevoli anche loro. La Corte ne ha preso atto, abbonando agli imputati una quantità infinità di reati «per non aver commesso il fatto», riferiti ad episodi che durante le udienze erano stati accettati come tali anche dai difensori degli imputati, che sono sempre stati consci di avere dalla loro il vantaggio non da poco dell'assenza di testimoni terzi che si frapponessero tra imputati e vittime incapaci di dare un volto alle persone all'epoca nel centro di detenzione temporaneo sulle alture di Genova. In questi anni, Bolzaneto, le sue vittime e persino i suoi imputati sono sempre stati figli di un Dio minore rispetto agli altri due grandi processi del G8, quello contro i manifestanti e quello sulla scuola Diaz, entrambi vissuti in contrapposizione tra loro. Era il parente povero. Fu soltanto con la requisitoria fatta dai magistrati nello scorso marzo che l'opinione pubblica diede pari risalto anche ai soprusi avvenuti nella caserma.
Il verdetto è una sorpresa, nonostante le condanne delle poche persone davvero identificate con certezza, come l'agente Massimo Pigozzi (2 anni e tre mesi), che ha squarciato la mano di un giovane o il medico Giacomo Toccafondi (indultato). Nell'aula che si svuota, lo riconoscono anche gli avvocati difensori degli imputati, entrati al mattino con la certezza della batosta. I loro assistiti negli ultimi tempi si erano sentiti abbandonati anche dallo Stato, padre e padrone. L'avvocatura dello Stato aveva fatto sapere che in assenza di «rapporto organico», visto che le forze dell'ordine non si erano comportate come tali a Bolzaneto, il ministero dell'interno non avrebbe pagato le spese legali agli agenti imputati. L'onda di indignazione suscitata a marzo dal racconto degli abusi e dei soprusi era considerata come il preludio a condanne pesanti. 
«Ci sentiamo come se il Genoa dovesse giocare al Santiago Bernabeu contro il Real Madrid» aveva detto il difensore di Toccafondi, per il quale erano stati chiesti tre anni e mezzo di reclusione. «Il risultato non è neppure in discussione». Certe volte, dipende dall'arbitro.