RASSEGNA STAMPA

IL MANIFESTO - Ecco perché ci voleva una battaglia per l'amnistia

Genova, 15 novembre 2008

L'ANALISI
Ecco perché ci voleva una battaglia per l'amnistia. Ai movimenti

Luca Casarini

Come si fa a non dire che la sentenza sui crimini commessi dalla polizia alla scuola Diaz di Genova è semplicemente scandalosa, vergognosa, ignobile? Lo è, come lo sono tantissime vicende che riguardano l'impunità delle forze dell'ordine di fronte a leggi, costituzione e diritti umani. Ma ci voleva la sentenza in questione per farci dire che «la legge non è uguale per tutti»? Qualcuno si aspettava veramente che lo Stato si lasciasse condannare dentro un tribunale, ammettendo di fatto quello che tutti sappiamo, e minando alla radice ogni credibilità dei suoi apparati? Come dire che 60 anni di storia sono passati per niente. Forse che le stragi che hanno insanguinato questo paese contro i movimenti sociali sono state meno devastanti? Eppure i colpevoli veri nessun tribunale li ha mai condannati. Sono stati tutti individuati, come per la Diaz e per Genova, ma appunto «amnistiati».
La sentenza riafferma il principio che lo Stato, quando ne ha la necessità, può violare la legge anche oltre la costituzione. E il meccanismo giudiziario che si mette in moto, quando ciò che avviene coinvolge lo spazio pubblico, o addirittura diviene esso stesso spazio pubblico, va corretto politicamente. Certo, si fabbricano e si distruggono prove materiali, si inventano giustificazioni e si producono carte false, ma alla base vi è un impegno, un'entrata in gioco dello spazio politico che si riconosce sostanzialmente nelle regole del gioco. Perché Prodi, altrimenti, avrebbe esso stesso promosso il responsabile numero uno delle violenze di Genova, cioè l'allora capo della polizia De Gennaro? Lo spazio politico della governance interviene quando ad essere minacciata è la stessa fonte di credibilità e legittimità dello stato, con una azione bipartisan, certamente diversa nei toni, nelle sfumature, ma che concorre allo stesso obiettivo. Quando in buona fede o no si ripongono tutte le forze sul meccanismo della giustizia tramite i tribunali, senza un minimo di riflessione sul fatto che essi sono parte del problema e non della soluzione, oppure sulle commissioni di inchiesta, e si sottrae questa forza allo spazio politico del movimento, cioè alla sua autonomia, si fa il loro gioco. Alla Diaz hanno deciso di procedere, tutti, per l'amnistia alla polizia. Qualcuno voleva l'assoluzione di ogni poliziotto, qualcun altro propendeva per l'invenzione dei buoni e dei cattivi. Alla fine tutto è prescritto, condonato, sistemato. È quindi una scelta politica, non una generica impunità dovuta a collusioni tra apparati.
Questo non significa che non bisognava condurre una battaglia anche in tribunale, ma in funzione di qualcos'altro, e su altri presupposti. In funzione della controinchiesta, della possibilità di scardinare il più possibile la clandestinizzazione del dispositivo di repressione. Con il presupposto che l'unica forma di giustizia possibile dallo stato sarebbe potuta essere solo l'amnistia per tutti i manifestanti colpiti da procedimenti giudiziari per le lotte di quei giorni. Invece l'amnistia se la sono fatta solo per loro, usando un vuoto di proposte del movimento. Un errore strategico che forse è lo stesso di cui parla Ferrero, quando si riferisce al tentativo di qualcuno, che poi è finito male, di far diventare quel grande movimento una cosa interna ai partiti e all'Unione. La battaglia per l'autonomia dei movimenti ha significato per molti di noi anche non prostrarci su commissioni parlamentari o fiducia nei tribunali, e invece parlare di amnistia per i manifestanti di Genova già da tempo. È un argomento, questo dell'autonomia di scelte, di pratiche e di obiettivi, più attuale che mai. Ne parla con mille voci e nemmeno una bandiera un movimento nuovo ed enorme, che disegna una realtà che è il contrario di un regime, dove tutto è pacificato.