RASSEGNA STAMPA

IL SECOLO XIX - Diaz, il giorno della verità

Genova, 13 novembre 2008

Diaz, il giorno della verità
Graziano Cetara
 
Alla fine resteranno in tre. Soli con se stessi e la propria coscienza. Un uomo e due donne: Gabrio Barone, Anna Leila Dellopreite e Fulvia Maggio. A loro, il presidente e i due giudici a latere della prima sezione penale del tribunale di Genova, toccherà decidere. Conclusa l’ultima di duecento udienze, dopo quattro anni di processo, a sette anni e due mesi dai fatti, stamattina i tre magistrati, terminate le repliche rimaste in sospeso, si chiuderanno in una stanza per emettere la sentenza più attesa da tempo immemore per il capoluogo ligure, una delle più clamorose, comunque vada, della storia giudiziaria italiana degli ultimi anni: quella per il massacro alla scuola Diaz-Pascoli. Sul banco degli imputati 29 poliziotti, i «generali» e la «truppa», funzionari e agenti accusati a vario titolo di lesioni, falso, calunnia, arresti illegali.
I tre giudici dovranno scrivere l’ultimo capitolo della storia processuale innescata dal G8 del 2001, il summit dei grandi organizzato a Genova e costato devastazioni, scontri di piazza e, soprattutto, una giovane vita, quella di Carlo Giuliani. Spetterà a loro assolvere o condannare la polizia. Perché è la polizia sotto accusa, da quella notte del 21 luglio, quando un commando di agenti del settimo nucleo del reparto mobile di Roma, seguiti a ruota da colleghi di altre sezioni, fece irruzione nel quartiere generale dei no global, la sede del Genoa Social Forum installata nel complesso scolastico “Armando Diaz” e “Giovanni Pascoli” di via Battisti, tra le residenze del levante genovese. Gli agenti entrarono abbattendo il cancello con un blindato. Da quel preciso istante il tempo si è come fermato. Il concetto di prova e di colpevolezza, la fiducia nelle forze dell’ordine e nello Stato, la stessa differenza tra buoni e cattivi, da allora tutto è tornato in gioco. Agli occhi di chi assisteva aggrappato alle grate della scuola, di fronte ai celerini in assetto anti sommossa; a quelli di chi era all’interno, diviso tra le due opposte fazioni; e agli occhi di chi, a distanza, ha seguito il processo in tutti questi anni.
In quella scuola 93 ragazzi furono sorpresi nel sonno dopo tre giorni di manifestazioni e scontri di piazza. Furono massacrati nei sacchi a pelo, trascinati sul pavimento, presi a manganellate, a calci, nella palestra, lungo le scale, attorno all’edificio. Gli agenti colpivano e insultavano, spaccavano ossa, seminando disprezzo e sangue.
Per l’accusa fu una vendetta, un modo per rimettere a posto le cose dopo «il fallimento dell’ordine pubblico andato in mondovisione» nei due giorni precedenti. Una ritorsione voluta e ordinata dai vertici della polizia, finiti tra gli imputati: Francesco Gratteri, allora dirigente del Servizio centrale operativo oggi a capo dell’Anticrimine; Giovanni Luperi, ex vicedirettore dell’ Ucigos attualmente ai vertici dell’ Aisi ( l’ ex Sisde) e Gilberto Caldarozzi, ex vicedirettore dello Sco, oggi capo del Servizio centrale operativo.
Per la difesa fu un’operazione di polizia organizzata per arrestare i famigerati black bloc, che avevano messo la città a ferro e fuoco e si annidavano fra i no global; per reagire all’aggressione a mano armata subita da un poliziotto e prevenire possibili nuovi scontri.
La polizia è finita sotto inchiesta perché nell’istituto furono pestate persone inermi. Ma non solo. I 93 manifestati arrestati con l’accusa di associazione per delinquere, furono subito liberati con tante scuse. Contro di loro non c’erano prove e i verbali con i quali furono trasferiti nella caserma di Bolzaneto risultarono veline senza alcun peso. Le bottiglie molotov messe dalla questura sul tavolo d’una conferenza stampa senza possibilità di porre domande, come un trofeo a giustificazione e bilancio del blitz, erano arrivate da una aiuola di corso Italia, portate nella scuola dall’esterno. I picconi e le altre armi improprie erano gli attrezzi del cantiere edile aperto nell’edificio. La coltellata che avrebbe subito l’agente Massimo Nucera forse non fu mai vibrata, comunque è risultata nel corso del processo una circostanza controversa, così come quella del lancio di oggetti contro una pattuglia, il motivo scatenante l’irruzione.
Durante le indagini della procura prima e al processo poi, è stato analizzato ogni fotogramma delle centinaia di ore di registrazioni filmate prodotte nei giorni successivi. Eppure non è stato possibile identificare tutti gli agenti presenti nella scuola. La polizia non ha collaborato, anzi. Dallo stesso svolgimento del processo Diaz sono nate altre tre inchieste, tuttora in corso: una contro l’ex questore di Genova Francesco Colucci, accusato di falsa testimonianza, con il coinvolgimento per induzione allo “spergiuro” dell’ex numero uno della polizia italiana Gianni De Gennaro; la seconda per la sparizione di una delle prove chiave, le due bottiglie molotov “smarrite” dalla questura genovese; e una terza, in extremis, riguardante l’identificazione d’un poliziotto definito “coda di cavallo” per l’acconciatura dei suoi capelli durante i pestaggi , riconosciuto dal pm nel corso delle udienze tra il pubblico.
«Hanno fatto bene ad andare alla Diaz e alla Pascoli, a perquisirle, a cercare i black bloc, le loro armi. Se solo avessero rispettato la legge». Hanno chiuso la loro requisitoria con queste parole i due pm Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona, chiedendo 109 anni di pene complessive. Ora toccherà ai tre giudici, un uomo e due donne soli, dire chi l’ha infranta. E nel caso punirlo come merita.