RASSEGNA STAMPA

IL MANIFESTO - Il verde e il no-global

Londra, 1 dicembre 2009

MICHAEL HARDT: SUL CLIMA UN NUOVO MOVIMENTO
Il verde e il no-global

In vista della Conferenza di Copenhagen i movimenti si preparano a dare battaglia, mentre i negoziatori cercano di aprire la strada a un accordo «politicamente vincolante». Perché di trattato con forza di legge per ora non si parla
Paolo Gerbaudo

Dieci anni dopo le grandi proteste contro la riunione dell'Organizzazione mondiale del commercio a Seattle, un nuovo movimento globale potrebbe nascere sulle strade gelate di Copenhagen, dove tra 6 giorni comincerà una conferenza Onu sul clima che sarà assediata da decine di migliaia di manifestanti. Reduce dalla recente pubblicazione di Commonwealth, libro che completa la trilogia di Impero e Moltitudine, scritta a quattro mani con Toni Negri, e che parla della necessità di costruire nuove istituzioni per gestire i beni comuni, Michael Hardt guarda con fiducia a una mobilitazione che, secondo l'autrice no-global Naomi Klein, segna il passaggio all'età adulta del movimento anti-globalizzazione. Tuttavia non nasconde le difficoltà che la questione del cambiamento climatico pone alla sinistra anticapitalista. «Bisogna trovare una conciliazione tra le nostre domande democratiche di benessere per tutti e i limiti delle risorse naturali. E non si tratta di un compito facile».

Pensi che il movimento che si sta organizzando per Copenhagen sia una continuazione del movimento no-global?
Il ciclo cominciato a Seattle e continuato a Goteborg, Praga e poi Genova, che era caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di gruppi e di conflitti è terminato con l'inizio della guerra contro l'Iraq e l'Afghanistan. Copenhagen è qualcosa di nuovo in cui, penso, si vedranno alcune delle qualità che hanno caratterizzato il movimento contro la globalizzazione neoliberista, tra cui la presenza di forme di organizzazione orizzontale. Però, al momento, non è ancora chiaro se si tratta dell'apertura di un ciclo di dimensione simile a quello «no-global».
Questa volta, le proteste prendono di mira una conferenza che sulla carta punta a salvare l'ecosistema piuttosto che a fare del mondo un grande mercato comune
Diverso è anche l'atteggiamento dei movimenti. A Seattle eravamo contro il capitale globale e bisognava bloccare a tutti i costi quella riunione. In questo caso invece ci confrontiamo con un problema vero che in qualche modo bisogna risolvere e su cui si deve prendere una decisione, ma la si deve prendere in maniera autentica e giusta.

Dall'antagonismo del ciclo no-global a un orientamento più riformista?
Non penso che le due cose si escludano. È vero che è urgente riformare l'economia globale e il rapporto con l'ambiente, perché le riforme sono necessarie e quelle proposte finora sono insufficienti. Ma in questo ambito non vedo una incompatibilità tra riforme e antagonismo. E neppure capisco chi storce il naso se uno chiede riforme sul clima anche a livello statale, e poi vuole costruire una politica radicalmente diversa che guardi oltre lo stato e oltre il mercato.

Qual è secondo te la principale differenza tra gli attivisti che andranno a Copenhagen e quelli che manifestarono a Seattle?
Mi sembra che la gente che si sta mobilitando per Copenhagen sia di due tipi diversi. Da un lato ci sono gruppi anticapitalisti come quelli che andarono a Seattle, dall'altro ci sono gruppi ecologisti. Entrambi questi fronti fanno riferimento a un'idea del bene comune, ma per altri versi sono ancora distanti. Nelle lotte anticapitaliste c'è l'idea dell'illimitatezza dei beni comuni. Invece nel movimento ecologista c'è una coscienza del limite. E in verità la terra, l'acqua, l'ambiente pongono dei limiti. È un conflitto interessante, che non può essere risolto a tavolino dagli intellettuali ma dev'essere risolto all'interno del movimento.

In alcune parti della sinistra anticapitalista sembra esserci una certa allergia verso un modo di affrontare la questione del cambiamento climatico considerato regressivo, perché cozza contro le richieste di benessere e si sposa invece con l'austerità.
È un istinto giusto quello di non fidarsi di coloro che insistono sull'austerità. Tuttavia, sono convinto che in questo ambito bisogna confrontarsi una buona volta sulla questione dei limiti. Questo non vuol dire che bisogna lasciar perdere la nostra battaglia per il benessere per tutti, il «vogliamo tutto» di Balestrini. Ma bisogna pure trovare una conciliazione tra le nostre domande democratiche e i limiti delle risorse naturali. Sono convinto che sia possibile tenere insieme l'illimitata creatività sociale umana e i limiti delle risorse naturali.

Spesso nel dibattito sul cambiamento climatico sentiamo riferimenti all'idea di «dovere»: dovere verso le generazioni future, dovere verso il terzo mondo, o dovere verso il pianeta. Sono discorsi che sembrano fare a pugni con quel concetto di desiderio che sta al centro del filone filosofico su cui tu e Toni Negri avete lavorato. Non è urgente recuperare a sinistra un'idea di dovere?
All'interno della sinistra anticapitalista il rifiuto del concetto di «dovere» viene da una diffidenza verso l'autorità e quindi dal rifiuto dell'autorità del padrone o del partito. Il dovere nel senso di contratto sociale dovrebbe essere distinto dal dovere come «responsabilità» verso la natura ad esempio. Sicuramente confrontare i limiti del desiderio è un compito molto alto. Purtroppo non è un compito facile.

In questi ultimi anni si è parlato molto di decrescita, e questo è un filone di discussione che acquista nuova forza alla luce dell'emergenza clima. Pensi che sia una proposta utile?
Io penso che il discorso che si è sviluppato attorno al concetto di decrescita sconti due grossi equivoci. Prima di tutto bisogna chiarire cosa si intende per crescita, se si intende quella della grande industrializzazione, della produzione di merce materiale, oppure se si intende la crescita di conoscenze, immagini e codici. Questo è un tipo di crescita che secondo me è illimitata e che non produce necessariamente danni all'ecosistema. L'altro equivoco è che non si fa differenza tra mondo dominante e mondi subordinati. Prova a dire in un foro sociale mondiale ai sindacalisti indiani e indonesiani che non devono crescere e quelli ti mandano a quel paese. E a ragione. Perché la questione della crescita è una questione che si pone in maniera diversa per diverse economie. In ogni caso, credo che l'idea di decrescita sia parte di una discussione che è necessario fare e sono felice che nell'avvicinamento a Copenhagen si stia sviluppando un dibattito intenso attorno a questa ed altre questioni.

Che connessione c'è tra crisi finanziaria e crisi climatica? È il cambiamento climatico il sintomo che l'esaurimento delle risorse naturali sta inverando la caduta tendenziale del tasso di profitto prevista da Marx?
Sicuramente c'è un nesso tra la scarsità delle risorse e la difficoltà del capitale globale, ma non mi sembra convincente vedere il motivo principale della crisi economica attuale nei problemi ecologici come fanno alcuni. Di certo, entrambe queste crisi vedono sia il capitale che i governi nazionali in difficoltà, perché i problemi in campo sembrano al di fuori della loro portata e della loro capacità di azione.

Il neoliberismo dato più volte per morto non vuole saperne di tirare le cuoia, mentre non sembra esserci un'alternativa coerente capace di scalzarlo. In un'era segnata dal cambiamento climatico il pensiero ecologista può costituire la base per una tale alternativa? È il verde il nuovo rosso?
È vero che nessuna alternativa al momento è in grado di sostituire il neoliberismo. D'altro canto, ciò che esiste al momento è una sorta di ideologia keynesiana-socialista, che è però di fatto un altro morto che cammina. Io non sono convinto che il conflitto ecologista offra una nuova alternativa teorica, né che il verde sia il nuovo rosso. Credo piuttosto che la questione del cambiamento climatico sia un campo di battaglia dove sviluppare una nuova forma di governo dell'economia alternativa al capitalismo.